lunedì 13 maggio 2013

Senza via d’uscita (Henry Farrell, Aeon Magazine, Regno Unito)

Nel settembre del 2012 il Partito democratico mi ha invitato alla scuola estiva di politica a Cortona.
Di solito questi eventi sono piacevoli (soprattutto se si tengono in luoghi come Cortona, una città medievale che sorge sui colli toscani, dove ci sono ottimi ristoranti) ma poco appassionanti. Docenti universitari e intellettuali tengono conferenze vagamente legate a un tema specifico, in questo caso “comunicazione e democrazia”.
Giovani militanti di partito ascoltano educatamente nell’attesa di fare politica sul serio, quella che si fa nei corridoi o a cena. Questa volta però era diverso. Il Pd, il principale partito del centrosinistra italiano, sapeva di essere nei guai.
Un blogger ed ex comico, l’esuberante Beppe Grillo, aveva usato la sua celebrità per creare una forza politica online, il Movimento 5 stelle, che prometteva di andare molto bene alle elezioni. Il nuovo partito non aveva un programma coerente, a parte l’idea di spazzar via il vecchio sistema corrotto, ma questo è
bastato a entusiasmare gli elettori. In particolare, l’M5s è riuscito a prendere i voti di ragazzi che dieci anni prima avrebbero potuto essere elettori del Pd.
I timori suscitati da quella minaccia risuonavano nella scuola di Cortona. All’improvviso, il rapporto tra comunicazione e democrazia aveva assunto importanti implicazioni politiche. Il Pd veniva da due decenni
in cui aveva sofferto a causa del potere esercitato dall’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi sui mezzi d’informazione tradizionali. Adesso si vedeva sfidare anche da forze di sinistra, da populisti esperti di internet che sembravano sottrarre al partito attenzione ed energie. Pier Luigi Bersani, in quel momento segretario del Pd, probabile futuro premier e principale relatore dell’evento, era in una situazione particolarmente scomoda. La sua leadership era stata recentemente messa in discussione da Matteo Renzi, il sindaco di Firenze. Renzi prometteva proprio quel dinamismo che avrebbe potuto attirare gli elettori più giovani. Se Bersani voleva
continuare a guidare il partito, doveva vincere le primarie. Cortona gli offriva l’opportunità di parlare ai suoi militanti e di dimostrare di avere ancora un ruolo importante.
Io ero uno dei due oratori incaricati di “scaldare” il pubblico prima dell’intervento di Bersani. Funzionari del partito e giornalisti ci hanno sopportato pazientemente nell’attesa del vero evento. Ma quando ha preso la parola, Bersani ha pronunciato un discorso che è suonato come un allarmante grido di disperazione.
Ha affermato davanti al suo pubblico che la democrazia rappresentativa nel suo complesso, e in particolare quella europea, è in crisi. Un tempo offriva al mondo un modello che conciliava l’economia e la società, ma oggi non riesce più a offrire i benefici concreti (posti di lavoro, diritti e tutela dell’ambiente) che le
persone chiedono. In Italia, poi, Berlusconi e i suoi alleati hanno sistematicamente delegittimato il governo e deteriorato la vita pubblica. Il rapporto tra mondo politico e società civile si è spezzato.
Bersani sapeva quello che non voleva, cioè un cambiamento politico radicale: per lui, ogni eventuale riforma doveva affondare le radici nelle forme tradizionali della coesione nazionale. Ma non sapeva cosa voleva, oppure, se lo sapeva, non riusciva a descriverlo. Il suo discorso, avvolto nelle astrazioni fumose tipiche della retorica politica italiana, è stato un attacco all’estremismo sia degli oppositori interni sia del Movimento 5 stelle. Visto che non aveva un suo programma, non ha potuto promettere al partito nient’altro che side difficili ed esiti incerti.
Perché i socialdemocratici come Bersani hanno tante difficoltà a capire cosa fare? È un problema che non riguarda solo l’Italia. Anche i partiti di sinistra di altri paesi sono alle strette.
In Francia il governo di François Hollande ha proposto molte cose: una riduzione delle politiche di austerità, qualche attacco al mondo dell’impresa, tasse più alte per i cittadini molto ricchi. Quello che invece non ha proposto è qualcosa che somigli a un programma coerente di cambiamento.
Anche i socialdemocratici tedeschi sono in difficoltà. Il governo a guida cristianodemocratica riesce a far passare le misure di austerità convincendo gli elettori che grazie a queste politiche i loro soldi saranno al sicuro da spagnoli, italiani e greci. D’altro canto, il candidato socialdemocratico alla cancelleria, Peer Steinbrück, non è in condizione di protestare: nel 2009 ha contribuito a introdurre nella costituzione una misura per limitare la spesa pubblica, nella speranza di far apparire più responsabile il suo partito. Oggi Steinbrück sembra una versione più debole e meno risoluta della sua avversaria Angela Merkel, e ha appena il 32 per cento dei consensi.
In Grecia il partito socialista Pasok ha preso solo il 12,3 per cento alle elezioni del giugno 2012.
Quanto alla Spagna, i socialisti sono allo sbando forse più del governo di centrodestra.
In Irlanda, infine, alle elezioni di marzo il Partito laburista, “socio” di minoranza dell’attuale coalizione di governo, ha visto i suoi consensi crollare dal 21 al 4,6 per cento. Insomma, quando sono all’opposizione i partiti di sinistra europei non sanno cosa offrire agli elettori, e quando sono al potere non sanno approfittarne.
Non è certo quello che ci si aspettava.
Durante gli anni novanta e duemila i partiti di destra hanno sostenuto in modo entusiastico le politiche liberiste, premendo per deregolamentare le attività bancarie, privatizzare le funzioni chiave dello stato e smantellare le tutele sociali. Adesso sembra che fossero tutte pessime idee. In altre parole, la crisi economica avrebbe dovuto mettere in difficoltà la destra. E allora perché è la sinistra a essere paralizzata?
Una risposta plausibile la fornisce Colin Crouch nell’inquietante libro Postdemocrazia (uscito nel 2004 e pubblicato in Italia da Laterza nel 2009). Crouch è un politologo britannico che ha insegnato per molti anni all’Istituto universitario europeo di Fiesole.
Nel Regno Unito il suo saggio ha avuto un buon successo, ma ha avuto più influenza nel resto d’Europa. Anche se lo studioso non ha partecipato all’incontro di Cortona, le sue idee erano onnipresenti. E il timore che avesse ragione, cioè che non ci siano vie d’uscita accettabili alla situazione attuale, ha gravato sul convegno come una cappa.
Crouch descrive la storia della democrazia come un arco. All’inizio i cittadini erano esclusi dalle decisioni politiche. Poi, durante il novecento, sono riusciti sempre più spesso a determinare i loro destini collettivi attraverso il processo elettorale, dando vita a partiti di massa che rappresentavano gli interessi dei cittadini nei governi. Prosperità economica e benessere dei lavoratori andavano di pari passo. Le imprese riconoscevano dei limiti al loro operato e rispondevano a governi democraticamente legittimati. I mercati erano subordinati alla politica e non il contrario.
Poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, la democrazia ha raggiunto il suo apice in paesi come gli Stati Uniti e nel Regno Unito. Ma da allora, secondo Crouch, è cominciato il declino. In paesi
come l’Italia, ascesa e declino hanno assunto forme ambigue.
In altri, come la Spagna, il Portogallo e la Grecia, l’avanzamento della democrazia è cominciato molto più tardi, perché questi paesi si sono liberati delle loro dittature solo negli anni settanta. Ma la democrazia è ormai entrata ovunque in una fase discendente. Certo, le strutture formali della democrazia sono ancora intatte: le persone continuano a votare, i partiti si contendono il potere alle elezioni e si alternano al governo. Ma questi elementi democratici un po’ alla volta si sono svuotati di senso: le decisioni vere si prendono altrove, e viviamo tra le rovine delle grandi società democratiche del passato. Crouch attribuisce la colpa di tutto questo in parte ai soliti sospetti: a causa della globalizzazione dei mercati, le imprese sono diventate
sempre più potenti (possono trasferire, o minacciare di trasferire, le loro attività altrove) e i governi si sono indeboliti. Ma la vera lezione del libro riguarda alcune forme più particolari di distacco.
Il neoliberismo avrebbe dovuto sostituire la politica corrotta con una concorrenza efficiente basata sul mercato. Invece ha condotto alla nascita di orride chimere. Le aziende di tipo tradizionale, basate su rapporti
solidi tra datori di lavoro, dipendenti e clienti, si sono trasformate in una rete complessa di rapporti di fornitura e di forme contrattuali. I padroni rimangono gli stessi, ma i loro rapporti con i dipendenti sono cambiati. Tanto per cominciare, non è più così semplice accertare le responsabilità delle aziende. Come hanno dimostrato Thomas Geoghegan e altri studiosi di diritto, le imprese statunitensi si sono sistematicamente disfatte degli scomodi obblighi relativi all’erogazione delle pensioni ai dipendenti, appaltandole a ditte controllate. Invece di combattere questi abusi, la maggior parte dei paesi ha provato a imitare queste soluzioni flessibili e apparentemente più efficienti. In alcuni casi appaltando ai privati, attraverso accordi complessi, molte delle funzioni dello stato, in altri chiedendo ad alcune entità amministrative di comportarsi come se fossero aziende concorrenti tra loro. Il risultato è stata la creazione di un intrico di rapporti che non sono soggetti né alla disciplina di mercato né al controllo democratico. Le imprese stabiliscono con lo stato rapporti in cui quest’ultimo è allo stesso tempo cliente e controllore. I governi, da parte loro, fanno sempre più affidamento sulle aziende, al punto che senza i loro consigli non saprebbero cosa fare. Il concetto di responsabilità svanisce in un labirinto di appalti e subappalti. Così come Crouch la descrive, l’amministrazione dello stato non è responsabile dell’erogazione di servizi più di quanto lo sia la Nike di fabbricare le scarpe che vende con il suo marchio. La sfera dell’autentica democrazia, quella in cui si compiono scelte politiche che rispondono alle esigenze degli elettori, si contrae ulteriormente.
Nel frattempo, i politici stanno uscendo dal raggio d’azione dei partiti che teoricamente li hanno scelti, così come degli elettori che li hanno votati: semplicemente, non gli serviamo più come un tempo.
Oggi, per i politici è molto più facile chiedere soldi e servizi alle aziende in cambio di favori invece che cercare di intercettare le esigenze di un elettorato sempre più frammentato e comunque sempre più difficile da capire. Mano a mano che aumenta lo scollamento tra i cittadini e la politica, le elezioni diventano sempre più delle operazioni di marketing.
Crouch ha scritto Postdemocrazia dieci anni fa, quando quasi tutti pensavano che le cose andassero a gonfie vele. Fino a quando il mercato continuava a generare posti di lavoro e crescita economica, gli elettori non si preoccupavano più di tanto dello svuotamento della democrazia. Neanche i partiti di sinistra erano allarmati: reagivano ai nuovi scenari cercando di proporre una “terza via” fatta di iniziative basate sul mercato ma che potessero offrire ampie tutele sociali. Gli insegnamenti di Crouch sono stati compresi davvero solo sulla scia
della crisi economica.
Il problema dei partiti di centrosinistra non è che vogliono compiere scelte difficili o impopolari: è che non gli restano più scelte concrete. Sono smarriti, a causa dell’incapacità di soddisfare la loro base di consenso tradizionale (che comunque sta sparendo o ha preso le distanze) e di proporre iniziative nuove, visto che lo stato non ha più gli strumenti per attuarle.
Queste difficoltà riguardano quasi tutti i paesi. Ma in Europa la situazione è particolare. Anche se, per miracolo, i sistemi politici nazionali dei paesi dell’Unione europea riuscissero a riconquistare la forza politica di un tempo, ormai il potere decisionale è passato a Bruxelles, a sua volta sempre più dominata da una combinazione tossica di realpolitik economica ed egoismo burocratico. I ricchi paesi del nord non sono disposti ad aiutare i vicini del sud più dello stretto necessario, e pretendono sempre maggiore austerità.
Un tempo i socialdemocratici consideravano l’Unione europea come un baluardo contro la globalizzazione, forse perino un modello di come poter assoggettare l’economia internazionale a un controllo democratico.
Al contrario, l’Unione si sta rivelando un vettore di corrosione perché pretende che gli stati più deboli realizzino riforme economiche drastiche senza neanche l’apparenza di un processo consultivo.

Ma torniamo all’Italia, laboratorio delle manifestazioni più grottesche della postdemocrazia.
Forza Italia, l’artificioso simulacro di partito politico messo in piedi da Silvio Berlusconi (e poi dissolto nel Popolo della libertà nel 2009), è un esempio perfetto della tesi di Crouch: fuori, una sottile patina di marketing e di mobilitazione di massa; dentro, un nucleo denso di élite imprenditoriali e politiche che galleggiano nel vuoto.
Dopo la scuola estiva di Cortona, nel novembre del 2012 Bersani ha sconfitto Matteo Renzi alle primarie e ha mantenuto la guida del partito in vista delle elezioni del febbraio 2013. La sua coalizione ha perso tre milioni e mezzo di voti ma ha conquistato la camera dei deputati, grazie al sistema elettorale italiano che assegna un enorme premio di maggioranza a chi vince. Al senato, invece, la sinistra è rimasta molto
lontana dalla maggioranza. Il Movimento 5 stelle ha preso il 25 per cento, molto di più di quanto chiunque si aspettasse.
In pratica, il Partito democratico è impigliato in uno dei due estremi del dilemma postdemocratico. Cerca di lavorare da dentro il sistema così com’è, nell’implausibile speranza di riuscire a produrre un cambiamento reale in un contesto che sembra fatto apposta per impedirlo. Il massimo che potrà fare d’ora in poi sarà cercare di aggiustare il sistema.
All’altro estremo del dilemma democratico è rimasto impigliato il Movimento 5 stelle, così come era già successo agli indignados in Spagna, al movimento Occupy Wall Street negli Stati Uniti e nel Regno Unito, e al popolo delle tende in Israele. Tutti questi movimenti hanno conquistato consensi di massa contestando le contraddizioni della postdemocrazia.
Il fossato che separa i cittadini dai politici si è allargato ulteriormente, e spesso i politici italiani non sono solo distanti, ma anche corrotti. L’M5s vuole riformare le istituzioni italiane rendendole autenticamente democratiche, ma si trova anch’esso intrappolato dal sistema. Come ha dichiarato lo stesso Grillo nell’ottobre del 2012 al Financial Times, “se il movimento diventa un partito siamo morti. Il nostro problema è restare un movimento pur stando in parlamento, che è una struttura fatta per i partiti. Noi dobbiamo sempre stare con un piede fuori”.
Ma la verità è che, se l’M5s vuole far accettare al complesso sistema politico italiano le sue proposte di cambiamento radicale, dovrà scendere a compromessi come fanno tutti gli altri. E l’indisponibilità di Grillo, anche solo di intavolare discussioni con le altre formazioni politiche che ne condividono il programma, ha creato fratture all’interno del suo stesso movimento.
Grillo insiste nel chiedere una trasformazione più radicale, in cui la politica così come la conoscono gli italiani sia sostituita da nuove forme di “intelligenza collettiva” su internet, in modo da consentire alle persone
di trovare soluzioni concordate ai problemi, evitando squallidi mercanteggiamenti tra partiti. Pur di salvare la democrazia, l’M5s vorrebbe lasciare la politica fuori dalla porta. Ma non può funzionare. I problemi della sinistra italiana rispecchiano quelli dei partiti di altri paesi.
Il Partito laburista britannico è in difficoltà perché oscilla tra una “terza via” alla Tony Blair, che non offre nessuna alternativa chiara al governo attuale, e una socialdemocrazia più compiuta che però non è capace di definire in tempi rapidi.  La sinistra francese si è impantanata negli scandali e nella confusione. Quella greca è divisa tra un partito socialdemocratico ancora più profondamente compromesso del Pd italiano e una coalizione informale di radicali che vuole fare tutto tranne andare al potere, per timore di essere costretta a prendere delle decisioni. Tutte le sinistre, ognuna a modo suo, sono smarrite nel labirinto della
postdemocrazia e nessuna intravede una valida via d’uscita. Dai primi anni ottanta, quando il presidente François Mitterrand tentò di realizzare in Francia un vasto programma socialdemocratico e fu punito dai mercati internazionali, si è capito chiaramente che la socialdemocrazia richiederà o una ritirata parziale dall’economia internazionale, con tutti i costi che comporta, oppure una trasformazione radicale del sistema
economico internazionale.
Quel che colpisce è che i partiti di destra non siano altrettanto in difficoltà. Molti conservatori sono convinti sostenitori della democrazia per motivi pragmatici più che idealistici. Purché i mercati funzionino e la società si mantenga stabile, non hanno problemi ad accettare una democrazia annacquata.
Quanto alle destre più estreme, tra cui Alba dorata in Grecia, hanno molte meno difficoltà del Movimento 5 stelle o di Syriza, la coalizione della sinistra radicale greca, a immaginare alternative. In fondo, riformare le moribonde istituzioni democratiche per renderle migliori e più vicine alle esigenze della gente non gli interessa
particolarmente. Anche se è improbabile che queste formazioni politiche prendano il potere, potranno orientare i loro paesi in direzioni meno democratiche, escludendo dalle tutele politiche i settori più deboli della società. La postdemocrazia sta strangolando i vecchi partiti di sinistra. Per riprendere una battuta di Crouch, forse l’unica cosa che la socialdemocrazia tradizionale può fare è portare la bara al suo stesso funerale.
Dall’altra parte c’è un nuovo gruppo di protagonisti – il Movimento 5 stelle e altri gruppi di giovani arrabbiati – che hanno colto l’occasione per conquistare grandi consensi. Il problema è che sembrano incapaci di trasformare la frustrazione in uno sforzo per cambiare le cose, per creare una via d’uscita. Forse con il passare del tempo capiranno come muoversi nella politica tradizionale. E forse i sistemi di governo che dominano l’economia mondiale finiranno per incepparsi e disgregarsi da soli, aprendo un varco a un assetto nuovo e diverso.
Prima di realizzarsi, i grandi cambiamenti sembrano sempre improbabili; solo una volta compiuti ci sembrano inevitabili.
Se c’è all’orizzonte un grande rovesciamento dell’ordine delle cose, in questo momento non riusciamo a vederlo. Questo perché la postdemocrazia ci ha intrappolati tra due mondi, uno morto e uno che non riesce a nascere. Potremmo restare in questa condizione per un bel po’.


(Henry Farrell, Aeon Magazine, Regno Unito)




Fonte: Internazionale 10/16 maggio 2013, N°999


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